Giocattoli di una volta

Domenica scorsa sono andato a trovare mio figlio Luca, che abita vicino a Venezia. Quando entrai in casa, come al solito, mancava la piccola Zoe. Lei fa sempre così, quando arrivano estranei o va a nascondersi in camera sua o, se la mamma è a portata di mano, va a nascondere la sua faccia nelle pieghe della sua gonna. Non c’era bisogno di chiedere dove fosse, era senz’altro in camera sua. Bussai alla sua porta ma non ebbi alcuna risposta. Entrai. Neanche alzò la testa per guardarmi e nemmeno mi salutò, fingeva di essere occupatissima col suo giocattolo. Sul letto erano sparsi un’infinità di giocattoli, ma lei stava giocando con dei piattini e tazzine. La salutai e lei rispose ciao senza spostare il suo sguardo di un centimetro. La solita storia! a cui ormai ero abituato. In quella stanza c’erano giocattoli dappertutto, perfino sul pavimento, bisognava stare attenti dove si posavano i piedi. Se noi, di altri tempi, volevamo giocare, spesso il giocattolo lo dovevamo inventare noi e poi anche costruire con le nostre mani e tutto questo era uno stimolo alla nostra fantasia, uno stimolo alla ricerca dell’indipendenza. Ai nostri tempi esisteva solo l’Epifania, una brutta vecchia e tanto avara da portarci una misera calzetta che conteneva due mele, tre noci, un arancio ed una caramella. La novità era costituita soltanto dall’arancio e dalla caramella, che potevano esser comprate soltanto una volta all’anno. Le mele e le noci, invece, provenivano dal nostro granaio e tenute sotto chiave. Forse questo era troppo poco e troppo pochi erano i giocattoli. Ai tempi della mia fanciullezza Zoe avrebbe ricevuto uno o al massimo due di quei giocattoli. Attualmente le cose stanno molto diversamente. Ricordo che io e le mie sorelle, mai vedemmo un albero di Natale ed eravamo del tutto convinti che il Bambino Gesù, nato povero, assolutamente non avesse soldi per farci regali. Oggi, invece, i nostri piccoli non hanno bisogno di desiderarli perché i genitori soddisfano i loro desideri ancora prima che essi li esprimano. Mi chiedo pertanto se sia giusto togliere loro l’emozione di vedere soddisfatto ciò che hanno desiderato e chiesto per tanto tempo. A 7 anni la Befana mi portò un fuciletto di latta che sparava piccoli turaccioli fino a 5 metri. Dio solo sa quanto mi fece felice quel giocattolo! Me lo tenni caro per almeno tre anni, dopo di che mi fu regalato un pattino di legno (costruito da mio padre) per colpa del quale persi l’amore per il piccolo fucile. Già da giovanissimi, io e tanti altri, avevamo già preso confidenza col banco di lavoro dei nostri genitori e loro si divertivano a vederci segare, piallare, raspare e piantar chiodi, e da tutto questo lavoro saltavan fuori i nostri giocattoli. che amavamo molto perché erano opera nostra. Ci facevamo le slitte per scivolare sul ghiaccio ed anche la trottola. In quei tempi ogni ragazzino aveva la sua trottola in tasca. Il figlio di benestanti ne aveva una perfetta e colorata, comprata in negozio, la nostra se pur bruttina e color legno, quand’era ben lanciata, fischiava (la fasea i organi) ancor più di quelle ben costruite col tornio. Noi avevamo mille modi per giocare e divertirci, usavamo perfino i bottoni dei vestiti. E ci divertivamo veramente! In primavera si giocava allo sparo col carburo di calcio. Sul fondo di un barattolo vuoto si faceva un piccolo foro, si metteva per terra un pezzetto di carburo (si usava allora per ottenere l’acetilene per le saldature), lo si bagnava un po’ e quando cominciava ad emettere gas, lo si copriva col barattolo rovescio e avvicinando un tizzone acceso al foro, si otteneva l’esplosione del gas che lanciava in aria il barattolo a grande altezza. Questo, naturalmente, si poteva fare solo in campagna. Un altro gioco, o meglio burla, che ci divertiva molto era lo scherzo del borsellino volante, anche questo era possibile farlo solo nelle strade di campagna dove ci fossero state delle siepi per nasconderci. Si prendeva un borsellino, lo si riempiva di carta per farlo figurare pieno di soldi, vi si fissava uno spago abbastanza resistente e lungo, si poneva il borsellino sul ciglio della strada e ci si nascondeva dietro alla siepe con lo spago in mano, in attesa del babbeo che dovesse raccattarlo. Già l’attesa del malcapitato era motivo di eccitazione. Quando invece il poveraccio era in vista, il cuore cominciava a trasferirsi verso la gola. Gli attimi più emozionanti, però, erano quelli in cui un passante in bicicletta frenava, la metteva per terra e si piegava per raccogliere il borsellino. In quell’attimo, con uno strappo allo spago, il borsellino volava in mano nostra e cominciava la furia condita di parolacce del malcapitato. Se era una donna la reazione sarebbe stata più contenuta, al massimo avrebbe detto: oh! Maria Vergine, che scherso selo mai questo!! Ma se il beffato era un uomo e magari tanto grasso da far fatica a piegarsi, allora apriti cielo!! Una volta, però, uno dei babbei, bloccò la ruota della bicicletta sopra lo spago. Io tirai, lo spago si ruppe, lui allungò la mano verso terra, raccolse il borsellino, se lo mise in tasca e se ne andò senza dire alcuna parolaccia.

  1. #1 di sergio il giugno 17, 2010 - 12:50 PM

    Non so proprio cosa commentare, tu coltisci sempre nel segno. Quei tempi gli ho vissuti anch’io ed erano proprio così. Ed adesso che di nipotini ne ho ben quattro non solo trovo piene zeppe le loro case di giocattoli ma è pure piena anche la mia.

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